2021 – FRANCESCA TULLI – RIVISTA SEGNO N. 280
Come per la pittura anche per il lavoro sulle tre dimensioni il nucleo generativo della ricerca di Francesca Tulli dimora in una sorta di silenzioso riesame, declinato al presente, di quello che fu uno dei principali rovelli della cultura accademica occidentale: il rapporto tra creazione artistica e dato percettivo, tra impulso espressivo volto all’innovazione e fascinazione per l’inganno mimetico.
Le armi segrete fin qui gestite dalla Tulli con la determinazione di un detective e la perizia di uno scenografo, fanno tutte capo ad un medesimo assunto, quello secondo cui non è l’abilità nel confondere lo sguardo a rendere così rassicurante la famigerata “imitazione della natura”, ma la struttura spaziale su cui essa vien fatta poggiare all’insegna di un presunto ordinamento superiore in cui tutto è in relazione con tutto. Se le cose stanno così, sembra volerci dire la nostra artista, al di la delle deflagrazioni prodotte dall’Avanguardia e al di qua dei paradossi propostici dall’ Iperrealismo, resta ancora aperta una strada mai battuta per chi voglia indagare ulteriormente, quella di provare a vedere cosa succede laddove lo spazio prospettico tradizionale non venga abolito, ma più semplicemente indebolito sul piano della sua riferibilità ad una presunta legge unitaria.
Nascono così, agli esordi degli anni ‘90, i primi esperimenti in cui ad essere preso in esame è l’ambiente domestico, la cui capacità di rassicurare i propri abitatori, a rigore, dovrebbe rimanere intatta se affrontata con un sistema di rappresentazione ritenuto oggettivo sul piano geometrico e aperto alla verisimiglianza del colore.
Oggi possiamo ben dire che nel tempo i frutti non si sono fatti desiderare. Applicando, infatti, scorci prospettici inusuali, tagli di luce perentori e inquadrature libere ad una abitazione medio borghese dei nostri giorni, ad onta di ogni rigore, tutte le situazioni di crisi che potevano essere innescate ci si sono palesate, l’una dopo l’altra, come qualcosa che era li in agguato da sempre, come varianti del percepire in grado di accendere l’immaginazione e mettere in allarme la coscienza.
Che una serie di strumenti d’indagine analoghi ed insistenti sulla stessa area di ricerca siano all’opera anche sul “versante scultura” dell’attività della Tulli, non è difficile da dimostrare laddove se ne osservino le caratteristiche attenendosi ad un confronto aperto e ben centrato. Il tutto, però, partendo dalla premessa che qui, riappare proprio quella figura umana che era stata strategicamente esclusa dal discorso pittorico. Riappare ed assume un ruolo centrale non in ossequio alla tradizione, ma, al contrario, perché è chiamata a contraddire l’idea che dinnanzi ad essa lo spazio non possa che essere concepito come scena da riempire secondo regole ineludibili. L’ artista romana ha qui, infatti, preso una decisione non solo estremamente coraggiosa, ma direi anche, gnoseologicamente ineccepibile: l’uomo può tornare padrone della scena anche trasformando la sua stessa immagine nell’asse cartesiano di cui ha bisogno per calarsi nella dimensione del dubbio, dell’incertezza e persino del tragico. Prendono corpo così figure in bronzo nette ed aliene da qualsiasi connotazione eroica capaci di affermare la propria dignità anche a testa in giù, piegate ad angolo vivo o con i piedi poggianti su di un piano distaccato dal terreno, figure non più “esemplari” in quanto migliori degli altri ma “rappresentative” in quanto capaci significare una condizione condivisa.
Infine anche per quanto riguarda la capacità di destrutturare l’ambiente, portando alla luce e sviluppando le forme in esso potenzialmente contenute, la ricerca plastica di Francesca Tulli si è dimostrata pronta ad accogliere tutti gli stimoli che all’osservatore critico dei nostri giorni provengono da una accresciuta disinibizione psichica e da una arricchita cultura operazionale. Così se per dimora dell’uomo assumiamo la sua stessa fisicità, in luogo delle inquietanti situazioni ottenute a partire dall’ambiente domestico, possiamo ora confrontarci con tutta una serie di fantasie generative più che degenerative che ne segnalano una intrinseca disponibilità alla mutazione non iscritta nelle regioni dell’incubo ma afferente all’universo della immaginazione plastica. Nasce quella genia dei “mutanti “ sia ittio-morfi che fito-morfi cui la Kou Gallery di Roma ha appena dedicato una ampia e significativa esposizione, segnale inequivocabile di quella rinnovata apertura culturale di cui la città eterna ha oggi più che mai necessità.
Paolo Balmas