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1997 – SUPREMAZIA DELL’OCCHIO  – VISIONARIA catalogo mostra – Galleria Marazzani Visconti Terzi – Piacenza e Roma

Prima un veloce sguardo d’insieme, poi la messa a fuoco dell’intero campo ottico, quindi una “visione” che entra in sintonia con i dettagli della scelta individuale: pensate un attimo al rapporto che abbiamo con il mondo e capirete che la nostra SELEZIONE VITALE, davanti a tutte le forme che ci circondano, si riassume in questo percorso a tre tappe. Ogni momento, è poi ovvio, non ha regole chiuse ma possiede milioni di sfumature e variabili soggettive, creando così quella molteplicità di “teorie visive” che rende infiniti il Cinema, il Video, la Pittura e in, parallelo, la dialettica di ogni umano con oggetti, persone, piante e animali. Il principale propulsore di vita e di progresso si chiama OCCHIO UMANO, quel piccolo oggetto disposto (a parte qualche “ciclope” contemporaneo) sempre in coppia, fatto di una strana materia che non è pura solidità ma neppure liquida. A lui va attribuita ogni partenza per i vari progressi umani e tecnologici, a lui si deve la selezione che , dopo aver mandato i dati al cervello, vuole modellare anche durante le dinamiche cerebrali. La VISIONE appartiene all’UOMO più di ogni cosa e lo rende “diverso” da vegetali e animali (mai superiore, l’antropocentrismo non dimostra l’intelligenza degli uomini). Riflettiamo su quanta coscienza ci sia dentro un cane o una foglia, su come la sana ragione personalizzi animali e piante della Terra, su quanta perfezione regga un universo in cui conviviamo con altre civiltà galattiche per noi inaccessibili: dentro questa meccanica superiore solo la “visione” rende funzionale la nostra ragione e ci permette una forza autonoma rispetto agli altri esseri non umani; solo così elaboriamo nuovi mondi dentro altri mondi esistenti, fornendo una vera e propulsione per mandare dati al cervello e denotarli come successiva forma compiuta (quindi sempre qualcosa che giunge ai nostri occhi e poi ritorna nel mondo).

LA PITTURA…
A sintetizzare questa SUPREMAZIA DELL’OCCHIO ci pensano il Cinema e da, innumerevoli decenni, quella Pittura che tutto riesce a immaginare e costruire. Il Cinema scardina, ricostruisce e sintetizza il mondo ma con dei limiti, congeniti sia al suo campo ottico che allo sfruttamento tecnologico; la Pittura, invece, non avendo alcun limite se non la superficie su cui nasce, immagina ogni variabile negli stessi termini in cui la nostra mente concretizza il concetto di libertà individuale. Cinema e Pittura, a cui aggiungerei la Fotografia come forma di raccordo tra quei due linguaggi, hanno poi dato vita a Video (la televisione come formula privata derivata dalla formula pubblica del Cinema), Computer (interazione e azione sulla formula dinamica del video televisivo, aggiungendoci le dinamiche del corpo umano che dialoga con lo sguardo), Pubblicità e Grafica (Armando Testa con David Carson devono moltissimo alle avanguardie di questo secolo), Moda (una continua citazione di elementi della storia artistica, in modo diretto o subliminale). Una diramazione di linguaggi che torna, immancabile, sempre alle formule archetipiche della Pittura, pronta a riavvolgere i molti fili verso le terminazioni ideali di quell’OCCHIO in perenne azione mutante.

Fast forward….Giotto, Orson Welles, Peter Greenaway, Ugo Mulas, Piero della Francesca, Michelangelo Antonioni, Leonardo, Pontormo, Veronese, Caravaggio, Derek Jarman, Stanley Kubrik, Irving Penn, Goya, Maya Deren, Man Ray, Velazquez, Quentin Tarantino, Andy Warhol, David Lynch, Gherard Richter, William Burroughs, Edward Hopper, Jean Luc Godard, Hal Dechamp, Ed Ruscha, Roy Lichtestein, Alfred Hitchcock, Francis Bacon, Claude Monet, Sharunas Bertas…rewind

Nomi su nomi che hanno agito facendo “pensare il proprio occhio”, usandolo in una forma dove l’inquadratura si pone nella sua totale autonomia rispetto al mondo che rappresenta. La capacità della grande arte figurativa, se ci pensate bene, risiede nel dare la maggior forza ad un singolo frammento, lavorandoci affinchè lì dentro si comprima ill massimo della potenza immaginabile. Tutti quei nomi sono nostra memoria, necessaria educazione, materia compiuta affinchè ogni singolo archetipo linguistico riesca a far generare, oggi e domani, nuovi archetipi linguistici. Non si inventa ma si deve , per forza di cose, reinventare lo sguardo attraverso le molteplici “teorie visive” che conosciamo: usare nuove combinazioni di sguardi equivale, ormai, ad una invenzione e non a semplici rivisitazioni metabolizzanti. Proprio su tale regola mi interessano, tra gli artisti a me contemporanei, coloro che, avendo cognizione dei molteplici sguardi passati, formulano una nuova visione che riesca a far compenetrare centinaia di “teorie visive”.

L’occhio è un organo come il nostro corpo, fatto di cervello e sangue, con un suo sistema che necessita di muscoli per dare forza alle immagini scelte e di ossa per sorreggere le inquadrature; l’occhio pulsa col suo colore che è anima delle immagini: si aggira nel mondo come uno stomaco che deve mangiare per vivere…e poi muore lasciando qualcosa, proprio come un corpo umano lascia un qualche frammento di memoria riutilizzabile.

UN OCCHIO PARTICOLARE…
Tra gli occhi pittorici che, almeno in Italia, mantengono intatte tutte queste caratteristiche vedo FRANCESCA TULLI…Lei lavora a Roma e, da diversi anni, riflette proprio in termini di “occhio” e “inquadratura” all’interno del dipingere. I suoi lavori, oltretutto, racchiudono Cinema e Fotografia dentro lo stesso viaggio pittorico, tenendo le due “arti della pellicola” come parti attive di una tela sempre più aderente all’ideale di PELLICOLA PITTORICA.
Il viaggio della Tulli si sviluppa tutto negli interni domestici, dentro alcune case di cui non sappiamo quasi nulla: scopriamo frammenti di vita solo attraverso oggetti, lampade, sedie, tavoli, scorci di finestre verso città notturne, tappeti e lampadari, bottiglie in vetro lavorato e bastoni dentro un contenitore da pavimento, porte, tende, cornici, mobili… La casa diventa un mondo incredibilmente vario e inaspettato, sempre diverso poiché le inquadrature dell’artista non sono mai banali e passive. La Tulli si aggira nelle stanze con una macchina fotografica pronta al continuo uso, scatta foto da ogni angolo, sala su sedie e scale per trovare angolazioni distorte, si sdraia a terra e continua a scattare, piega la testa e modifica gli angoli dell’immagine fotografica. Un tour atletico dentro l’abilitazione affinchè le cose normali e “invisibili” ritrovino uno stato di energia oggettuale, affinchè siano riattivate nella loro potenza di elementi vivi, dotati di una forma significante con un cuore estetico e una propria morale. Come dicevo prima, la “supremazia dell’occhio” permette di oltraggiare la sonnolenza del mondo e renderlo di nuovo visibile, ridando vita alle cose di cui noi, con la nostra visione, siamo artefici e fautori primari. Dopo quegli scatti le foto diventano nuova entità, l’ulteriore segno che la “supremazia ottica” può costruire catene di altri significati, nuovi percorsi della visione già messa in moto. I materiali di Francesca tulli passano, allora, alla fase pittorica, quella dei vari strati di olio su tela (o eventuale tavola): il pennello, adesso, dialoga con la libertà mentale che già costruisce, dentro il nostro cervello, un mondo spesso impossibile ma realizzabile nel nostro oceano interiore. La fotografia si era già inventata un nuovo stato delle cose, la pittura parte ora da quello stadio e ci lavora sopra, non scegliendo mai alcuna discesa iperrealista ma restando manuale nel potere disgregante dell’olio. La sovrapposizione di stesure distanti gli occhi prescelti, messi in uno stato di “acquaticità” che immobilizza le cose senza levargli forza; scorrendo i quadri ci si accorge della parzialità che riesce a concentrare l’energia nel frammento, del comprimere in un perimetro una singola porzione domestica. Non ci sono mai presenze umane ma solo rimandi attraverso dettagli domestici: eppure le persone si sentono, sembrano appena qualche centimetro fuori dall’inquadratura, vicinissime al silenzio di quel mondo tra il noir e un’intromissione nel privato di qualcuno.
L’occhio della Tulli funziona a dovere poiché si cala dentro un’ideale cinepresa fatta di colori e pennello: la pittura rimane pittura di pregevole fattura e ragiona con la meccanica sensibile di una cinepresa umana, sempre più consapevole che il vero obiettivo della cinepresa appartenga all’occhio di chi tiene la macchina in mano.

Ad aiutare il “senso pittorico” di questo sguardo contribuisce l’uso del colore: atmosfere tra il bianconero e una colorazione calda, su due binari che mantengono fedeltà verso il Cinema ma in forme particolari, di chiara pulsazione pittorica e attenta visionarietà. Il bianconero ama i contrasti e certe variabili tonali, con un senso della luce che ha le pulsioni e il rigore in dettaglio di Robert Bresson e Irving Penn; il colore, invece si mantiene tra gialli e arancio mai acidi, tra rossi nobiliari e scatti di raffinati avana, come piacerebbe a Carlo Di Palma quando illumina gli interni borghesi di Woody Allen.
I due piani cromatici della Tulli vanno poi ad incastrarsi su due strade pittoriche che sperimentano molteplici formati del quadro, proprio per nuovi tagli della superficie che stiano in sintonia col suo multiforme inquadrare.
Troviamo piccoli (o medio piccoli) lavori quadrati che appaiono come lampi seriali, belli da soli ma anche in una lunga serie, quasi fossimo nel computer che apre veloci e ripetuti squarci in primo piano; poi c’è l’opposto dei pezzi verticali e stretti, magri come fessure misteriose che si stagliano, solitarie, sul bianco dei muri: sembra davvero che si tagli una fessura improvvisa sulla parete, dentro uno scorcio che filma il silenzio rumoroso di una stanza; molti i quadri dal formato medio e rettangolare, una misura che permette giuste spazialità agli oggetti: corrispondono, in pratica, allo standard della fotografia più diffusa, quella che nella medietà riassume tutto senza comprimere o espandere troppo; infine ricordo le tele più panoramiche, quelle a rettangolo soprattutto orizzontale, veri schermi ambientali che danno la maggior ambiguità semantica ai luoghi e alle angolazioni visive.
Formati, colori, inquadrature e angoli rappresentano, per l’artista romana, una coscienza morale alla “supremazia dell’occhio”. La visione può modificare di continuo il mondo, renderlo un corpo soggettivo che ognuno di noi struttura; il quadro, e ora direi quello di Francesca Tulli, sintetizza proprio le architetture che ognuno di noi immagina, sogna scrive o racconta. Questa impagabile supremazia ottica ci permette di aprire ogni strada dell’intelletto, squarciare il nero verso stradari della nuova comunicazione, verso “dogane del progresso” che partono da nuove visioni in direzione di un futuro possibile.
Guardate i quadri della Tulli dove solo alcune zone ricevono luce più forte e concentrata, quasi che l’occhio mostri ulteriormente la sua supremazia di sguardo formulatore, di naturale riassemblatore dell’oggettività iniziale.
L’occhio seleziona, scarta e modifica, ambisce ad una propria personalità: ha quella SELEZIONE VITALE di cui parlavo ad inizio testo, rendendoci membri di un percorso in tre parti davanti alle cose del mondo. In questi quadri dell’artista (a parte un solo pezzo che mette in campo un accenno di figura e prelude a novità future) non ci sono persone perché ogni soggetto-visitatore è uno sguardo che si lega a quell’occhio vigilante ma invisibile dell’inquadratura pittorica: la SUPREMAZIA DELL’OCCHIO appartiene al cuore intimo dei quadri e, silenziosamente, li rende organismi vivi della visione contemporanea.

Gianluca Marziani

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