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1996 – FRANCESCA TULLI  catalogo mostra – Galleria Maniero – Roma

La luce filtra dalle persiane o da una porta socchiusa, taglia spigoli e pareti, disegna lunghe strisce nette quanto irreali, produce geometrie sghembe e figure inattese. Quando cade sulle superfici levigate del mobilio fa sbocciare i riflessi come fiori incantati, come caldi sorrisi di gente di famiglia.
C’è silenzio, ma il silenzio degli oggetti non è semplicemente assenza di voce, è brusio continuo, denso e un po’ lontano, a volte profondo, altre volte quasi ciarliero. Il suo racconto lo si ascolta con gli occhi.
Insieme a Francesca Tulli stiamo guardando, ma non siamo presenti, altrimenti non potremmo vedere né sentire. Non potremmo perché ciò che stiamo vivendo è proprio il nostro non esserci. Nascosti dietro lo schermo della pittura, dietro velature, pigmenti, vernice e olio di lino possiamo finalmente spiare la vita segreta delle cose. Una poltrona, un tavolo, una sveglia, un vassoio con su dei bicchieri… finché siamo con loro sono docile servitù, ci assecondano nelle nostre esigenze e assorbono i nostri umori. Appena tornano a stare da soli si fanno, invece, angoli di universo senza più coordinate e misure, sono magari immense macchine ferme o architetture azzardate e possenti; misteriosi congegni rinchiusi su se stessi o rilucenti foreste stregate. Sono comunque forme animate.

È vero, l’immaginario legato alla magia nasce ogni volta anche qui, anche in questi “angoli di universo” dove ci si può acquattare mentalmente dimentichi di un corpo ingombrante e del tempo che ci perseguita. Con l’arte, però questo fatto c’entra poco e il perché è presto detto: in arte la magia non è una forza che intervenga per produrre un effetto è solo ed esclusivamente l’effetto medesimo, il risultato finale o, se si vuole, la “realtà” dell’opera.
Lungo il percorso c’è ben altro: c’è uno scambio continuo tra intelligenza tecnica e intelligenza poetica, l’una a guardia dell’altra per evitare proprio ciò di cui, al contrario, maghi e stregoni vanno a caccia sin dalla notte dei tempi: l’incantesimo perfettamente codificato, la “formula” fissata una volta per tutte.
La pittura in passato è stata grande, grande come l’ambizione dei suoi committenti, grande come l’attesa suscitata dai sistemi culturali entro cui si muoveva. Oggi chiunque sa dove colpire per umiliarla, dimostrando a fil di logica l’inconsistenza delle sue pretese conoscitive. Chissà, forse i poveri di spiritiche si esercitano a farlo ogni giorno cercano proprio questo: il riflesso della sua grandezza per nobilitarsi attraverso il rito dell’uccisione. C’è però qualcosa che sfugge a questi nostalgici inconsapevoli, non vedono che proprio grazie alle loro persecuzioni, (che vanno avanti impietose ormai da decenni), la grandezza dileguandosi si è tramutata in bellezza.
Oggi la pittura è bella, come un abito di scena, bella come una cornice preziosa attorno ad uno specchio limpido, bella come una dama d’altri tempi che si sia guadagnata, non si sa bene per quale via, l’eterna giovinezza, bella, ancora, come l’immagine di una divinità che non chiede più a nessuno né preghiere né sacrifici.

Ecco allora che tanta avvenenza può essere usata quale filtro rivelatore, quale emittente di auraticità che per contatto e confronto faccia emergere possibilità nascoste, realtà inutile in mille occasioni, ma rimaste sempre coperte dal velo dell’abitudine.
E appunto l’abitudine, come si sa, è per antonomasia la cattiva compagna della percezione, colei che da artisti potenziali, quali saremmo tutti per nascita, ci trasforma lentamente in persone qualsiasi, in impiegati nell’esperire e poeti della domenica. Francesca Tulli, è quasi inutile sottolinearlo, agisce proprio sulla percezione, forzandola senza violarne le regole e usando nel contempo il filtro della buona pittura. La sua, tuttavia, non vuole essere una azione violenta, una pretenziosa terapia d’urto, semmai una scoperta progressiva da fare insieme, una esercitazione inusitata proposta in maniera discreta e quasi umoristica che si libera man mano dei suoi connotati iniziali e dopo averci attirato col gioco dell’intelligenza ci seduce con la poesia.

All’interno della scena dunque noi non ci siamo, ma in essa subiamo l’attrazione magnetica e riconosciamo i protagonisti. In prima fila tra questi c’è la nostra stessa assenza che è poi il principio che anima l’inanimato e dunque genera o rigenera l’intera compagnia. Ma se la nostra essenza è anch’essa rappresentazione ottenuta attraverso i servigi della pittura (che umanizza ciò che dell’uomo, di norma, è solo strumento) per trovare il vero soggetto dell’opera bisognerà risalire ancora di un passaggio e sarà giocoforza riconoscerlo tale strumento, appunto, nella pittura stessa.
Tutto questo, si potrebbe obbiettare, per offrirci, alla fin fine, ancora una tautologia? Un’altra modalità di rispecchiamento del linguaggio in se stesso?
Forse, in un certo senso, si, ma si tratta di ben altra cosa rispetto ad una semplice riedizione di quel concettualismo per così dire “vestito” che allo scadere degli anni ’70 riaprì la strada alla pratica tradizionale del dipingere. Qui, infatti, nelle maglie dell’intero discorso l’artista ha fatto di tutto perché rimanesse impigliato sin dall’inizio, quale condito sine qua non, il germe inequivocabile dell’emozione subito declinato in sentimento e narrazione fantastica. Non solo, ma tale declinazione, a meno di un piccolo sforzo, che siamo, peraltro, spontaneamente portati a compiere, è tutta lì dinnanzi ai nostri ai occhi, possibile di essere smontata e rimontata in ogni sua fase e componente, sicché diviene inevitabile interrogarsi non tanto sul linguaggio in sé e per sé quanto sul ruolo che all’interno di esso ha in funzione poetica. Se è davvero l’ambiguità del messaggio a generare poesia dove dobbiamo ritrovare nel nostro caso tale ambiguità? Forse nel taglio fotografico che a dire il vero è soltanto inusitato, ma purtuttavia corretto? Forse nella voluta trasgressione, (tramite un garbato paradosso sull’idea stessa di natura morta) della vecchia teoria dei generi cui nessuno attribuisce più alcuna validità? O forse ancora nella semplice, ma anche abile e divertita, messa fuori fase di un sistema di attese da considerarsi per giunta resuscitato nell’occasione?
Non saprei, ma credo che non sia esattamente questa la questione. Credo che qui, attraverso questi stessi interrogativi, sia in gioco qualcosa di più profondo, una domanda ben più radicale che potremmo formulare più o meno così: “come fa il linguaggio ad essere ad un tempo arbitrario, aderente all’esperienza e creatore di nuove realtà?”. Questa domanda, non penso di dovervelo dimostrare ulteriormente, la pittura di Francesca Tulli se la pone in maniera straordinariamente ricca e suggestiva senza tuttavia rinunciare a nulla né sul piano della determinatezza e concisione, né su quello della semplice e piena comunicatività umana.

Paolo Balmas

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